
Rai Play rende omaggio a François Truffaut mettendo a disposizione gratuitamente su Rai Play 11 (undici) suoi film in versione integrale e restaurata con doppio audio e sottotitoli. Potete guardarli su Effetto Truffaut. Noi, nel nostro piccolo, ve li presentiamo a puntate. A poco più di 60 anni dal suo debutto con “I 400 colpi” ancora oggi Truffaut resta uno di quegli autori che sa toccare il cuore con ogni film. Perché Truffaut era veramente l’uomo che amava il cinema e e riusciva a portare sullo schermo tutto il suo amore per la vita. In questo capitolo “Jules e Jim”, “La calda amante” e “Baci rubati”.
“Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia, costruire un oggetto che è allo stesso tempo un giocattolo inedito e un vaso dove si disporranno, come se si trattasse di un mazzo di fiori, le idee che si hanno in questo momento o in modo permanente. Il nostro film migliore è forse quello in cui riusciamo a esprimere, più o meno volontariamente, sia le nostre idee sulla vita che le nostre idee sul cinema.”
Non staremo qui a raccontarvi chi era Truffaut, ma ci teniamo a presentarvi questo omaggio che la RAI gli attribuisce. Undici film rappresentativi della sua opera, undici film senza tempo, undici film in cui la macchina da presa di Truffaut rinchiude la vita e la rende grande e unica. Come la nostra che li stiamo a guardare.
L’omaggio di Rai Play a Truffaut in 11 film
“L’ultimo metrò” (Le deriner Métro), 1980
Con Catherine Deneuve, Gérard Depardieu, Jean Piret, Andréa Ferréol, Richard Bohringer, Jean Poiret, Paulette Dubost, Maurice Risch, László Szabó, Renata, Alain Tasma, René Dupré (II), Jean-Paul Belmondo, Sabine Haudepin
Truffaut ambienta “L’ultimo metrò” a Parigi nel periodo dell’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale quando una popolazione impoverita e privata della libertà aveva come unica possibilità di distrazione il cinema e il teatro, luoghi in cui si poteva stare al caldo e magari ascoltare qualche voce ancora libera. Una volta di più Truffaut ci dice che il teatro e il cinema sono ancore a cui aggrapparsi per ricavare la forza di resistere come persone e come popolo. A patto di rientrare prima del coprifuoco, senza perdere l’ultimo metrò.
Quando è ormai un punto di riferimento per tutto il cinema mondiale, Truffaut decide di mettersi da parte per rendere omaggio alla figura dell’attore. Allora in questa storia di teatro sin dall’inizio nasconde il regista in cantina lasciando che in superficie siano gli attori a muovere l’arte e la vita sfidando l’occupazione nazista e l’impeto dei sentimenti. Qui poi ci sono Catherine Deneuve al massimo del suo fascino e un Depardieu sfrontato che sembra recitare un se stesso irresistibile. Ma anche tutto il contorno è mosso da attori come Andrea Ferréol, Jean Piret o Paulette Dubost ai quali anche in poche scene è impossibile non volere bene.
Truffaut ha sempre amato i suoi attori, ok, soprattutto le attrici come gli rinfacciava il suo ex amico Jean Luc Godard dopo aver visto “Effetto notte” (escluso dall’undicina di Rai Play, ma guardatelo perché è il più bel omaggio che il cinema abbia mai reso al suo mondo) lo accusò di fare film solo per portarsi a letto le attrici. Ma certamente anche questa volta emerge quanto Truffaut fosse bravo ad esaltare le prove degli attori, caratterizzando e mettendo in risalto anche a chi compariva nei suoi film solo per pochi minuti. Con le sue storie fortissime di sentimenti comuni ci lasciava nella memoria e nel cuore i volti che avevamo visto sullo schermo.
Oltre al prezioso omaggio agli attori in “L’ultimo metrò” ci sono la storia con la A maiuscola e la storia personale dell’infanzia del regista, il teatro e ovviamente l’amore con uno dei classici ménage a trois in cui Truffaut costringe ancora una volta i suoi protagonisti, perché poi era in grado di farci capire che bastano uno sguardo o un corpo sfiorato per salvarci. Poco importa se, come lo stesso Truffaut ci insegna, l’amore può fare malissimo.
Insomma una storia emozionante e grandi attori L’ultimo metrò aveva tutti gli ingredienti per piacere al pubblico e infatti fu un grande successo commerciale (non scontato visti i risultati dei film precedenti) e ancora oggi è un piacere da guardare anche sullo schermo di un computer.

“La signora della porta accanto” (La femme d’à côté), 1981
Con Fanny Ardant, Gérard Depardieu, Henri Garcin, Michèle Baumgartner, Roger Van Hool, Véronique Silver
Ascolto solo canzoni. Perché dicono la verità. Più sono stupide, più sono vere. E poi non sono stupide. Che dicono? Dicono: non devi lasciarmi; senza di te in me non c’è vita; senza di te io sono una casa vuota. Oppure: lascia che io divenga l’ombra della tua ombra. Oppure: senza amore non siamo niente.
Quasi cinquantenne, al ventesimo film,Truffaut torna alla fatale passione d’amore, dopo “La mia droga si chiama Julie” e “Adele H.”, mettendo di fronte stavolta un uomo e una donna che si sono amati in passato, tema a cui dichiarò di avere pensato per molti anni.
Ne fa un film avviluppato intorno a una storia d’amore impossibile e destinato alla tragedia, costruito però secondo un registro da thriller, di cui ha il ritmo e la tensione – tanto da iniziare sulla scena del delitto. Sono tensione e ritmo a sostenere la credibilità e la dignità di ogni spericolata frase d’amore, e a strapparla dalla banalità in cui scivolerebbe se affidata a un altro regista o pronunciata da altri interpreti.
«Sai che sei molto più bella ora?», «Sono io che ti amavo, tu eri innamorato, non è la stessa cosa» sono frasi che scritte qui e ora suonano stucchevoli, e trite; Truffaut le rende convincenti sulle labbra di Gérard Depardieu e Fanny Ardant, i Bernard e Mathilde che si ritrovano vicini di casa (sposati felicemente entrambi) dieci anni dopo essersi lasciati perché capaci tra loro soltanto di un amore cattivo. Che in tre frasi e due incontri torna a imprigionarli, poderoso e spietato. E Truffaut si concentra proprio sulla prigione, sulla sofferenza di quell’amore cattivo che lega i due protagonisti – tornati dieci anni dopo allo stesso tormento reciproco che già li aveva sfiancati dieci anni prima – ritraendola senza scadere nel drammone e donando ai personaggi naturalezza anche quando sfiorano il grottesco (svenire dopo un bacio nel parcheggio di un supermercato? Sì, può capitare, non fate i cinici).
Il paradigma ovidiano del «nec sine te nec tecum vivere possum»(esatto, tipo «With or Without You» degli U2, però nella Roma di Ottaviano Augusto, distante da Grenoble e da Dublino) è esposto dal Virgilio di questa storia, la materna figura di Odile, narratrice, che di un amore simile porta i segni sul corpo, che non rimpiange niente (citando Edith Piaf), ma sa che non ci si deve intestardire a volere frequentare Eros e Thanatos.
È un «film d’amore che fa paura», come lo ha definito Depardieu, per le movenze hitchcockiane, per il timore che suscitano gli spasmi sentimentali degli due amanti, perché si consuma nell’attesa di una tragedia già intravista. Del resto, è naturale che in questa storia la parola sia «attesa», poiché (almeno secondo il buon Roland Barthes) «l’innamorato è colui che aspetta».

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