
Uhuru ovvero libertà in swahili.
Parola che ha un significato più ampio nel contesto locale: libertà dalla schiavitù (quella dei mercanti arabi che hanno devastato l’Africa orientale), dalla colonizzazione europea e dalle interferenze dei bianchi. Come dire, questo è il nostro paese, ce lo siamo conquistato, l’abbiamo tolto ai padroni stranieri e adesso ci dovete rispetto. Nello spazio della libertà e del rispetto sono ampie le possibilità di incontrarsi, se si lasciano da parte i problemi di comprensione tra culture diverse, dove il senso del tempo implica che un orario preciso a Stoccolma, mettiamo le nove del mattino, non abbia la stessa forza cogente a Dar es Salaam. Prima di tutto perché il tempo in swahili si conta a partire dalle sei di mattina e quindi le “nostre” nove sono le “loro” tre, e comunque nel tempo relativo ed elastico dell’Africa possono essere le otto oppure le dieci. Anche la lingua non si presta a creare ponti agevoli. Swahili da una parte. Italiano dall’altra. Un inglese maccheronico che fa da punto di equilibrio tra le due bande. Nello spazio del sospetto e dell’incomprensione, si la largo un linguaggio comune, un senso del ritmo, che procede a doppia carreggiata, verso l’Italia e verso la Tanzania, gesti che i musicisti comprendono al volo.
I protagonisti di questa storia sono due trentenni torinesi. Lei, Giulia Passera, voce fenomenale, intensa, da concerto sotto le stelle, è la bionda filiforme a destra nell’immagine di apertura. Un passato con la Sweet Life Society. Il suo compagno, Filippo Quaglia, a sinistra, è il genio dei campionatori. Per entrambi, la musica elettronica è il sangue che scorre, che bolle e che non ha bisogno di traduzioni per raggiungere il pubblico. Questo mese hanno pubblicato un disco, Uhuru Republic, il frutto di tre anni di lavoro con i musicisti tanzani, che mette insieme i due mondi agli antipodi, l’elettronica e gli strumenti della Tanzania, anzi di Zanzibar, dove il contatto tra Africa e mondo arabo ha prodotto un meticciato genetico e musicale.
E si vada avanti così, a mescolare e a confondersi, che da due colori non viene un indistinto grigio, ma una tavolozza nuova, dalle miriadi sfumature.
Com’è andata?
Dar es Salaam, ottobre 2016, un sabato sera. Alla festa per l’inaugurazione del nuovo concessionario della Toyota, inquadro con sorpresa due italiani: Giulia e Filippo. Come siano arrivati qui, sarà sempre un mistero. I venti dei monsoni musicali, immagino. Lei strega il pubblico con la sua voce; intorno, i ballerini locali, inutile dirlo più che bravi, diretti da una coreografa italiana, anche lei di passaggio per l’Africa, Vanessa Tamburi. Territorio familiare. Si può fare qualcosa. Il giorno dopo, a casa, si parla, si beve, si fa amicizia. Una bella comitiva di profughi artistici. Le idee volano, Giulia e Filippo vanno in giro per Dar es Salaam, annusano, provano, drizzano le orecchie. C’è qualcosa di nuovo qui. La grezza energia del Singeli, una roba che va oltre il rap, primitiva, urbana, riflesso di frustrazioni e rabbia come sempre accade con la musica nuova, fatta di una voce, una pianola giocattolo, due bastoni sopra una sedia; 150 bpm distorti ed urlati per trenta minuti. Una cosa da accaponare la pelle. Ma da queste parti si scovano musicisti che usano strumenti di origine araba, con secoli di tradizione alle spalle. Altro che tam-tam e gonnellini di paglia che piacciono ai turisti alla buona con una settimana di banalità all inclusive. Qui c’è da esplorare e provare a vedere che succede.
Un anno dopo Giulia e Filippo mi contattano per propormi un’idea: che ne penso di un workshop tra loro e musicisti locali, in cui elaborare insieme dei pezzi musicali da far sentire in concerto? In Ambasciata abbiamo qualche soldo a disposizione, l’idea è di quelle che ti cattura, giovani da su e giovani da giù uguale creazione, produzione, immagine, viva l’Italia che fa dialogare gli artisti. Arriva anche Raffaele Rebaudengo (Gnu Quartet) con il contrabbasso. Ci buttiamo e nell’ottobre 2018 Uhuru Republic muove i primi passi sul palcoscenico della House of Culture di Dar es Salaam, dopo un pomeriggio in cui gli italiani si trasformano in elettricisti per cercare di far funzionare l’impianto audio. Dopo il debutto, il trasferimento a Zanzibar, nuovi concerti, in cui il progetto cresce e la musica acquista la profondità che nasce dalla fiducia e dalla conoscenza reciproca.
Nell’agosto 2019 una nuova tappa. A Bagamoyo c’è un festival musicale dedicato al cantante congolese Remmy Ongala, che cercò fortuna a Dar es Salaam e finì per incontrare Paul Simon (“Kipeda roho” nel film “Natural Born Killers”). Stavolta il duo italico si fa accompagnare dal grafico Nicola Alessandrini, accompagnato da Lisa Gelli, per un workshop con gli artisti locali da cui escono i disegni dell’album. Altri cortocircuiti in corso. Altri esperimenti, altre suggestioni. Vale la pena provarci. Finché non sia possibile realizzare una sintesi, le tracce di un disco. Questo qui, “Welcome to Uhuru Republic”. Da esplorare ascoltando le correnti che legano gli esseri umani di due continenti.
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Per altre notizie: https://uhururepublove.tumblr.com/about

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