
Sono una volontaria della S.O.G.I.T. Molte volte mi hanno chiesto perché, pur essendo impegnata nel lavoro e in mille altre attività, faccio anche volontariato… Domanda forse legittima, che alle mie orecchie, però, suona come una bestemmia. E’ vero, non sono un medico, non sono un’infermiera e non sono, neppure, un operatore sanitario. Sono semplicemente un essere umano. Non ho le competenze per fare diagnosi, curare e prescrivere farmaci, ma ho la consapevolezza di quanto siano essenziali la sensibilità, la pazienza, la gentilezza, il sorriso e le parole.
Sovente, affianco i colleghi sulle ambulanze nel servizio di trasporto -da e per l’0spedale, da e per le case di riposo, da e per le abitazioni private. Durante il tragitto non sempre è possibile fare conversazione con i pazienti. Sono “ospiti” discreti. Spesso molto anziani, taciturni per carattere o necessità –costretti dalle maschere per l’ossigeno. Spesso barellati e, inevitabilmente, con il viso rivolto al soffitto -difficile intercettarne l’attenzione. Spesso parlano da soli, facendosi compagnia senza il mio sostegno. In questi casi, uno sguardo, una carezza e un sorriso arrivano là dove le parole sembrano solo pulviscolo atmosferico. Una ricetta che funziona sempre: lo sguardo infonde fiducia, la carezza conforta e il sorriso dirada l’opacità che li turba.
Un pizzico di conversazione, quando possibile, esalta il sapore dell’esistenza, come il sale nelle pietanze. Con i pazienti dializzati, per esempio, “ospiti” a giorni alterni, nasce un legame intimo. Ci si chiama per nome, a volte addirittura, con un vezzeggiativo. Domande e risposte, da entrambe le parti, si rincorrono ininterrottamente come le stagioni, fino ad arrivare a destinazione… l’ansia e il tempo sfumano.
La gioia più grande è quando, arrivati a destinazione, il portellone dell’ambulanza si apre e l’”ospite”, piacevolmente sorpreso, esclama: “ah, siamo già arrivati!” Concludendo con un “grazie” che scalda il cuore.

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