
Dopo aver vinto l’Oscar col suo ultimo film, Amour, torna nelle sale con Happy End, un film che conferma la forza del regista nel trattare i suoi temi ricorrenti, ma questa volta in una maniera meno cupa e più ironica che potrà scontentare qualche fan ortodosso, ma anche conquistare un pubblico più ampio

Happy End
Regia: Michael Haneke
Sceneggiatura: Michael Haneke
Paese: Francia, Austria, Germania
Genere: drammatico
Durata: 107 minuti
Interpreti:
Jean-Louis Trintignant: Georges Laurent
Isabelle Huppert: Anne Laurent
Toby Jones: Lawrence Bradshaw
Anne Laurent: Lawrence Bradshaw
Mathieu Kassovitz: Thomas Laurent
Consigliato a: famiglie patriarcali, eredi, maniaci suicidi, a chi ricorda con terrore i propri 13 anni
Sconsigliato a: chi fa finta che vada tutto bene e non vuol essere disturbato
Tre generazioni di una famiglia alto borghese nel nord della Francia, tra crolli, morti incombenti, fini desiderate, più o meno felici. Una ragazzina torna a vivere col padre cui la nuova compagna ha appena dato un nuovo figlio. La madre è in ospedale, probabilmente per un tentativo di suicidio o qualcosa di più inquietante, ma alla ragazzina tutti continuano a chiedere solo quanti anni ha. Vivono in una grande casa col nonno (uno strepitoso Jean-Louis Trintignant), la zia (Isabelle Huppert) e il figlio grande di lei che dovrebbe prendere in mano l’azienda, ma è un po’ pazzo, un po’ alcolizzato, e soprattutto è consapevole di non potercela fare.
Le tre generazioni della famiglia protagonista incarnano perfettamente la decadenza di un mondo che si avvia inesorabilmente verso la fine. L’anziano padre ormai inutile e disilluso desidera solo porre fine alla propria vita. I figli si sono dedicati con alterno successo alla carriera, ma hanno perso per strada l’amore e provano a simulare un’umanità che non è più nelle loro corde. La generazione più giovane parte già sconfitta e rassegnata e si abbandona a un’apatica autodistruzione senza speranza. Il crollo iniziale nell’enorme cantiere/cratere nell’incipit del film è il simbolo del crollo di un mondo che aspetta solo di scrivere la parola fine.

Mancanza d’amore goffamente dissimulata.
“Ma è davvero così bello tutto questo disincanto, questo cinico distacco?”
Haneke inquadra con apparente distacco il crollo definitivo dei pilastri della società occidentale: la famiglia e l’impresa. I dialoghi sono spezzati, non portano da nessuna parte, come i vani sforzi dei vari personaggi di dare un senso a quello che fanno. Ma al regista basta un’immagine, un movimento all’interno dell’inquadratura fissa per fare capire a noi come ai protagonisti l’imminenza della catastrofe e la goffa ipocrisia dei tentativi di nasconderla o allontanarla. Se la fine è inevitabile, se non può essere felice, almeno che sia rapida.
A questi temi tipici della sua opera, Haneke aggiunge un elemento di attualità. Ambienta la storia a Calais, estremo confine della Francia settentrionale, con la sua giungla dove trovano una triste fine i disperati dell’immigrazione. I migranti che incrociano casualmente i nostri protagonisti, guardano passivi e increduli un mondo che a loro deve sicuramente sembrare assurdo.
Il clima cupo e la gravità dei temi sono in parte stemperati da una sottile e cinica ironia che rende il film meno duro rispetto ai precedenti, come ad esempio “Amour” (premiato a Cannes e vincitore dell’Oscar come miglior film straniero) di cui “Happy end” è un ideale seguito con medesimi personaggi e attori. Forse il film soddisferà di meno i fan più ortodossi dell’autore, ma sicuramente potrà essere più apprezzato da un pubblico più ampio.

Domanda ignorante: Haneke is the new Bunuel? (non ho visto il film, ma in alcuni tratti la recensione sarebbe potuta tranquillamente essere quella del “Fascino discreto”)
Potrebbe, meno surreale, ma credo che i due andrebbero d’accordo