
Solamente un anno fa Werner Herzog dirigeva un dimenticabile papocchio con la Kidman e Robert Pattinson, Queen of the Desert. Al Biografilm Festival 2016 il nostro torna in forma smagliante, e per di più in anteprima mondiale, nello sport che meglio gli è riuscito negli ultimi quindici anni, quello del documentario. Tra filosofia e pragmatismo, indagine e sarcasmo. “Lo and Behold” è una secolare espressione di origine inglese. Etimologicamente parlando significa qualcosa del tipo “look and see” in tono imperativo.


Dalla passione degli ingegneri di robotica, forse malsana, si apre uno spiraglio per l’ambiguo mondo delle dipendenze e delle ossessioni. Come il male, o meglio, la cattiveria umana, può instaurare un rapporto con il Web? Ne deriva un breve siparietto drammatico su una famiglia tartassata da avvenimenti di pornografia della morte che circondano il decesso della figlia.
Ma è qualcosa che all’interno del film è debole, Herzog pare abbia voluto inserire un capitolo del genere più per questioni di completezza che per altro. E’ un impressione che non ha fondo di verità, ma arriva.
Lo stesso discorso si potrebbe fare sul capitolo dedicato alle persone che soffrono di patologie causate dalle esposizioni alle radiazioni e alle onde elettromagnetiche, seppur fascinosa l’estetica dell’immagine di chi per forza di cose si è ridotto ad osservare uno stile di vita tra il romantico “Walden, ovvero vita nei boschi” e lo stereotipo dell’hillibilly.
Ma è negli ultimi venti minuti di pellicola che l’opera assurge al visionario, quando tecnologia e religione si toccano e si entra nel campo della teologia del post-umano. “Internet può sognare sé stesso?”, si chiedono teorici della rete e maestri del codice. “Quale sarà il rapporto tra Internet e la colonizzazione degli altri pianeti del sistema solare?”, è la domanda sulla quale speculano curiosi astrofisici.
E tirando le somme, a sipario ormai calato, ci si chiede se il film di Herzog sia positivista o meno nei confronti del futuro iperconnesso. Ambiguo, ironico e tenero il commento del regista sull’immagine di un gruppetto di monaci tibetani intenti a twitterare sui loro smartphone. Meticciaggio quello tra religione e tecnologia, che una volta era pura fantascienza del Philip Dick visionario e drogato della Trilogia di Valis, e che ora sfugge dalla fantasia letteraria per divenire reale.
Nel film vi è una scena nella quale Kevin Mitnick, il più grande hacker della storia, cerca di tirare le somme delle sue leggendarie “bravate”. Mitnick è un illusionista del cyber-mondo, un Copperfield digitale. Per sue stesse parole, le falle di sicurezza, le debolezze delle strutture, non sono mica i computer, gli automi, i firewall. Sono gli uomini stessi. E si può sognare e sperare che nei prossimi anni Internet possa divenire uno strumento per stupire ancora una volta, evolvere noi come abitanti del mondo, come lo fece quarant’anni fa nell’ufficio 3420 grazie ad un manupolo di occhialuti visionari. “Lo and behold”, ammira.

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