
Bire Larson vince l’oscar nella parte di una madre segregata in una piccola stanza insieme al figlio. Un racconto cinematograficamente ben congeniato che trasmette tutte le ansie e le paure di una situazione estrema, delle sue conseguenze e delle sue proiezioni nelle nostre vite “normali”.

Room
Regia: Lenny Abrahamson
Sceneggiatura: Emma Donoghue (da un suo romanzo)
Paese: Canada, Irlanda
Genere: drammatico
Durata:118 minuti
Premi: Nominato come miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale agli Oscar 2016.
Oscar a Brie Larson come attrice protagonista.
Interpreti: Brie Larson, Megan Park, William H. Macy, Jacob Tremblay, Joan Allen
Consigliato a: disorientati, giovani madri, traumatizzati di ogni tipo, cuori in inverno.
Sconsigliato a: claustrofobici mentali, eterni indecisi, spensierati ad ogni costo.
Per gustarsi meglio questo film, è consigliato vederlo senza sapere nulla, per cui presteremo attenzione a non rivelare nulla della trama.
La prima parte del film è davvero forte e spiazzante: quattro mura nelle quali scopriamo un frigorifero, un armadio, un letto, la televisione e un lavandino che costituiscono il mondo in cui vive il piccolo Jack, lì rinchiuso con la madre. Come mai una mamma e un bambino di 5 anni sono chiusi in quella squallida piccola camera? dove sono? chi li tiene così imprigionati? come e quando tenteranno di fuggire? riusciranno a riappropriarsi della libertà e quindi della loro vita?
La stanza del titolo non è mostrata come un mondo claustrofobico, ma piuttosto come un mondo che disorienta: non si ha mai una visione completa, rassicurante, non si è mai certi delle collocazioni degli oggetti, né delle dimensioni degli spazi. Esattamente come nel mondo là fuori.
Il bambino compie cinque anni mentre noi capiamo che la madre fino a qui è stata bravissima a creare una parvenza di vita reale per lei e per il figlio dentro queste quattro mura: il bambino parla, fa ginnastica e sa anche leggere. Ma per lui il mondo inizia e finisce in quella stanza. Lo schermo della televisione e un piccolo lucernaio da cui si vede solo il cielo sono lo specchio di questa caverna di Platone nella quale a ritmi regolari le ombre che stanno là fuori si manifestano all’interno.

Il film è stato girato veramente in una stanza, con la macchina a mano o ricorrendo ed espedienti scenografici
Nonostante il crescendo di tensione e angoscia, non sono mostrate scene di violenza, né ci sono fenomeni paranormali che farebbero virare il film verso l’horror o il fantastico. Si tratta di un dramma che partendo da una situazione estrema si allarga ponendo domande che toccano tutti gli spettatori. Iniziamo a chiederci come ci comporteremmo noi lì dentro e proseguiamo domandandoci che vita farebbero questa madre e questo bambino là fuori. Ma queste non sono le vere domande che pone il film. Il film mette in scene la necessità di scelte e l’impossibilità di fare comunque la scelta giusta che elimini le conseguenze negative. Pone di fronte alle responsabilità quotidiane e a quelle più profonde, ma fa capire che è impossibile tenere completamente il controllo della propria vita. Fa vedere che il mondo può essere immenso o rinchiuso in una stanza, ma in ogni caso dobbiamo fare i conti con lui, adattarci, sopravvivere.
Se la prima parte del film ha un impatto fortissimo, la seconda pur con uno sviluppo più convenzionale, riesce a mantenere e approfondire quanto seminato all’inizio. Il merito della riuscita di questo film va alla regia capace di adattare i ritmi e gli spazi al susseguirsi delle situazioni e di mettere in scena un racconto per niente rassicurante e carico di tensione nel quale ogni luogo e ogni incontro sembrano nascondere un pericolo. Anche se forse a tenerci tanto incollati a questa storia sono soprattutto le performance strepitose di Brie Larson (meritato oscar come migliore attrice protagonista) e del piccolo Jacob Tremblay, davvero bravo in una parte tanto impegnativa.

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