
“L’essere che può venir compreso è linguaggio.”
Hans-Georg Gadamer dedicò gran parte della sua vita proprio a questo: la rappresentazione della realtà fra fonemi, grafemi e orizzonti di senso. La beneamata ermeneutica fu per lui una vocazione.
Mi servo dell’acume di uno dei filosofi più rappresentativi del secolo scorso per una breve riflessione che punta a esplorare luoghi talmente comuni da essersi inabissati nelle viscere dell’insipienza antropica. Il potere della Parola, la comprensione dell’esistente, il significato del significante: il punto centrale dell’esperienza mortale.
Non vi assicuro linearità di argomentazione – sarei presuntuosa – ma, ammesso e non concesso che mi diate il vostro placet, lasciatemi essere pretestuosa. Vi chiedo questo: un po’ di sana pazienza, un po’ di calore, in virtù del patto tacito fra Autore e Lettore.
Cavilli, sofismi e piccolezze sono un po’ il mio diletto, pertanto – oggi come domani – il mio intento è e sarà quello di farvi partecipi di un abbozzo informe che mi frulla per la mente da tempo, come un incessante battito d’ali. Un colibrì da ottanta battiti al secondo, forse più colorato, anche se decisamente meno grazioso.

E penso alla vita, rifletto su quel suo libero fluire, sull’inarrestabilità di certi eventi, sull’inesperienza dinanzi all’ignoto, sull’inconsistenza di taluni incontri, sulla futilità di scelte impervie, sulla docilità dell’animo umano, sull’aggressività di un cuore lacero. Sulle variabili indipendenti.
Mi rendo conto di come certi elementi appaiono slegati fra loro, scissi e differenti, ma l’Es che mi guida non può che esser dimentico di quel Super-Io sempre così discreto, tanto prodigo di consigli quanto parco d’ogni ardire. Nulla di personale, beninteso, ma la battaglia per la conquista del mio Io in bilico perenne è ad armi impari: da un lato, l’incoscienza di uno spirito avventuroso; dall’altro, un’eccessiva cognizione di causa a freni (inibitori) puntati. Nella confusione generale, a vincerla è sicuramente quell’Id istintuale che si divide fra Eros e Thanatos, in barba ai calcoli di chi ci vuole sempre allerta e vigili, inumanamente iper-presenti.
Tornando a noi, si parlava di quella matassa indistinta chiamata il più delle volte “pensiero”, di tanto in tanto “delirio”. Sull’onda di quest’ultimo, guardo a quell’esistenza – la mia, la vostra – che si esplica attraverso la coscienza di ciò che accade, l’interiorizzazione di eventi, azioni, gesti, manifestazioni, opere, omissioni. In ultima istanza, tramite parole. Parole? Sì, la vita procede nettamente a parole.
Perché cos’è il vivere se non ciò che siamo in grado di capire, percepire, ricordare e ricreare mentalmente, per poi ridefinire sotto nuova luce? Non è forse la comprensione intelligibile che permette all’esperienza di sedimentarne i risultati, di apprenderne le lezioni e di reinventarne le sorti?
La chiave di volta di un simile ragionamento – contorto, nella migliore delle ipotesi – sta proprio nel suo punto di partenza, racchiusa in una domanda d’amletica concezione: a esistere è il pensiero o la sua articolazione in frasi e costrutti logici? Detta altrimenti, esiste ciò che meditiamo oppure ciò che esprimiamo? Ad avere maggiore incisività è il concetto semplicemente abbozzato o quello esplicitamente manifestato?

Sbrogliare la matassa non è semplice, ma constatarne l’intrinseca difficoltà potrebbe rivelarsi un utile espediente per trovare una nostra personalissima risposta al caso in oggetto. La soluzione non è certo univoca: il relativismo la fa da padrone, la certezza assoluta non si svela, il dubbio pertanto permane indefesso. Troppe le variabili sottese, altrettanto numerose le dinamiche in gioco: cultura, ceto sociale, congiuntura storica, genere, etnia, religione, morale, etica, lingua. Già, la lingua. Perché l’interpretazione della realtà circostante e la philosophia vitae che ne scaturisce dipendono proprio e soprattutto dal linguaggio, forse più di ogni altro fattore esplicativo.
E mentre le prime gelate ci accolgono ostili, e la rugiada novembrina si trasforma in una sempre più spessa coltre di brina (un’assonanza casuale?), mi sorge spontaneo – e quasi banale – considerare le innumerevoli parole che in lingua inuit si utilizzano comunemente per descrivere le diverse condizioni e forme assunte dalla neve.
La-neve-che-scende e quella che-segna-la-fine-della-bella-stagione, la neve-appena-caduta e quella su-cui-si-fa-fatica-a-camminare, la-neve-dura-e-cristallina e quella morbida-e-soffice. E ancora quella che-si-è-sciolta-e-poi-ricongelata, quella bagnata, quella farinosa, ma anche quella trasportata-dal-vento, quella che-scricchiola-sotto-il-peso-dei-passi, quella sciolta-per-essere-bevuta, e così via. L’elenco potrebbe continuare, ma a interessarci è soprattutto il senso disperso fra queste perifrasi artiche.
Al di là del folclore e forse di un tenero sorriso canzonatorio (etnocentrico?), non ci si può certo sorprendere della ricchezza lessicale del ceppo eschimo-aleutino in fatto di “neve”. In un contesto in cui le condizioni atmosferiche ne sono profondamente influenzate tanto da incidere sull’economia e gli usi locali, le sue definizioni acquistano un’importanza capitale, oltreché vitale nella valutazione del livello di pericolo o di successo nel caso di una battuta di caccia o di un’uscita fuori porta.
Da questa constatazione il passo – per una definizione di “linguaggio” più compiuta – è breve. Ciascuna lingua non fa che riflettere i bisogni primari del popolo cui fa capo, esprimendone le mappe concettuali e traducendone i pensieri in parole, suoni o immagini.
Il linguaggio, pertanto, è una chiara sistematizzazione della realtà, una sua trasposizione mentale connotata socialmente e culturalmente. Oggetti, cose, persone, eventi e esperienze (reali o immaginari) non sfuggono dal suo carattere totalizzante: tutto viene espresso, concettualizzato e categorizzato in modi vari e in forme ancor più disparate, sulla base di significati che la sola cultura di cui siamo imbevuti ci permette di decodificare.

Particolare è il caso in cui due o più persone facciano riferimento a sistemi di linguaggio agli antipodi o con pochi punti di contatto. In un’era in cui la concordia tra globalizzazione e libertà di movimento vacilla sempre più insistentemente, il dialogo interculturale, così come lo scambio e il confronto, continuano a rappresentare la via maestra per superare ogni dicotomia e preconcetto aprioristico.
Tolleranza, apertura e flessibilità le parole chiave di questo nuovo approccio funzionale. Pensieri, parole, opere e (o)missioni ne sono un’accurata sintesi pratica. Sarebbe un vero peccato non tentare la strada della conciliazione con l’altro e dell’accettazione del diverso. Un impegno che val bene lo sforzo!

….molto Freudiano…!