
Sono passati settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1945 si chiudeva l’ultima guerra combattuta dall’Italia, mentre successivamente sarebbero seguite unicamente operazioni di pace, peace-enforcement, ecc. Dietro questi patetici neo-linguismi, si sono nascoste autentiche missioni di combattimento come in Afghanistan, tuttavia la nostra nazione non è mai stata realmente impegnata in un conflitto sanguinoso su larga scala. Grazie all’articolo 11 della Costituzione e a decenni di pace/pacifismo, la parola “guerra” è stata sconfessata, ripudiata e messa nell’angolino della barbarie. Un lusso dettato da una laida ipocrisia che ora sta giungendo alla resa dei conti.
Marte e Venere
Per decenni si è raccontato all’opinione pubblica europea che l’unico modo di condurre la politica estera (e sottobanco la politica di potenza) fosse attraverso il dialogo e la diplomazia. Anche in quei casi in cui bisognava ricorrere alla forza, come nella prima guerra del golfo, il tutto doveva avvenire nella cornice dell’Onu e solo per ricacciare l’aggressore. In realtà le classi dirigenti dei paesi europei (a parte gli inglesi e i francesi) scaricarono furbescamente l’onere del conflitto sul grande protettore americano e i restanti impegni militari li mascherarono come interventi “umanitari” o di “mantenimento della pace”. I leader europei spesso fecero di tutto per trattenere gli americani sul proprio suolo (anche quando questi volevano seriamente disimpegnarsi dai paesi alleati), lasciando a loro i principali costi dell’esercito e anche il fango che derivava dalle avventure militari.
In questo modo lentamente scomparve nelle popolazioni il concetto di guerra, ma anche la consapevolezza che il nostro benessere materiale poggiasse sul massacro politico, militare e economico di paesi esteri, spesso situati nel terzo mondo. La colpa era sempre delle forze del male o della rapacità dell’Impero Americano; i buoni europei rimanevano ovviamente sul sacro sentiero della pace.
Le cose incominciarono a cambiare con l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 che catapultò la parola “guerra” nei dibattiti sui media occidentali, con la “Guerra al Terrore” proclamata da Bush e i successivi interventi militari in Iraq e in Afghanistan. Anche in questo caso molti dirigenti della UE si distinsero per i giri di parole onde mascherare le guerre in corso, tirando sempre in ballo l’Onu o altri sotterfugi da diplomatici di quarta categoria. I nostri politici arrivarono a livelli d’ipocrisia impensabili, specialmente per quanto riguarda il teatro di guerra afghano (una guerra fatta e finita), nascondendo le operazioni militari, inserendo spesso delle limitazioni assurde alla regole d’ingaggio e crogiolandosi nel fatto che l’esercito italiano era situato nelle province più tranquille del paese occupato. La lontananza del paese afghano facilitarono il distacco e il disinteresse da parte dell’opinione pubblica nostrana, mentre la Nato combatteva facendo migliaia di morti.
I barbari alle porte
Gli attacchi di Parigi di inizio anno, quelli di Copenaghen, l’ascesa del Califfato nei territori siriani/iracheni e l’instabilità sempre più forte in Libia (senza contare le tensioni sul fronte ucraino), hanno costituito un amaro risveglio per i cittadini europei. Essi ormai sentono soffiare sul collo i venti del conflitto che fino ad ieri erano stati relegati ai paesi esotici e lontani.
Per gli italiani, la questione è diventata alquanto evidente nelle ultime settimane con la delicata questione libica, dove una serie di errori e autentiche politiche fallimentari hanno portato la nostra ex-colonia a diventare una nuova Somalia, con il rischio evidente di avere in futuro un secondo Califfato sotto casa.
Questo ha riportato la parola “guerra” al centro della nostra realtà, nonostante il premier Renzi e i suoi lacchè continuino a invocare l’Onu e frenare sull’uso di questa parola. Ma questo non cancella il fatto che per la prima volta il nostro Paese potrebbe ritrovarsi in un conflitto bellico a poche centinaia di km da nostri confini, con rischi sanguinosi e estremamente pericolosi. La stessa opinione pubblica, per decenni votata al pacifismo assoluto, comincia a mostrare un animo più bellicoso, specialmente alla luce del fatto che non abbiamo più a che fare con cellule terroristiche isolate come Al Qaeda, ma con un’entità statuale votata alla conquista militare in nome di un’ideologia fanatica, la quale combina l’interpretazione fondamentalista dell’Islam con la politica di potenza e dominio.
Questo è il risultato di un’infinita serie di politiche fallimentari, in primis quella estera, in quanto i nostri capi non hanno voluto fare i conti con le problematiche innescate dalla Globalizzazione. Semplicemente hanno preferito nascondere il tutto sotto il tappeto in nome degli affari e dello status quo. Purtroppo il mondo funziona in un altro modo e ora il benessere materiale e la sicurezza andranno pagati…
Nel deserto
Coloro che invocano la guerra e le bombe per l’Isis, oltre che una risposta definitiva in Libia, dimenticano spesso i costi e il prezzo di un vero conflitto, abituati per anni al comodo paravento degli Usa. L’invasione del paese libico, come già ripetuto in altre sedi, comporterebbe una serie di costi materiali e umani assolutamente fuori dall’ordinario. In primis l’esercito italiano si troverebbe a fronteggiare centinaia di fazioni armate fino ai denti, fra cui jihadisti africani e medio-orientali che non vedono l’ora di fronteggiare la nuova “crociata” (come Hamas ha già avvisato). Le perdite sarebbero esponenzialmente più elevate, con decine e decine di morti nelle settimane successive all’invasione. Per un Paese che si dispera per pochi militari morti, sarebbe un autentico shock ritrovarsi nel “Vietnam” libico. I costi economici lieviterebbero a cifre nettamente superiori rispetto ai 900 milioni di Euro che vengono spesi annualmente per le missioni all’estero. I pesanti tagli alla Difesa attuati negli ultimi anni e la necessità di stabilire un adeguato supporto logistico per il mantenimento di un’armata di 5/10.000 soldati, ci porterebbe a spendere miliardi di Euro solo per i primi periodi (eviteremo di parlare dei costi successivi dettati dai processi di pace). Infine, l’Italia, già al centro di certi proclami dell’Isis, diventerebbe automaticamente un bersaglio militare per cani sciolti e foreign fighter jihadisti, con attentati multipli sul nostro suolo. In poche parole, una prova difficile che dovrebbe essere supportata da un’opinione pubblica abituata al Bengodi.
Al contrario, il rifiuto del conflitto avrebbe a sua volta dei costi per il nostro paese. A meno dell’intervento di altri paesi europei o dell’Egitto (cosa che comunque pagheremmo a livello di perdita del petrolio e del gas libico), la mancata azione favorirebbe alla lunga le formazioni jihadiste fedeli allo Stato Islamico, ferocemente determinate e supportate da finanziamenti insospettabili. Oltre al rischio concreto di avere una forza nemica dall’altra parte del Mediterraneo, i flussi migratori aumenterebbero a dismisura, dato che ormai sono una delle fonti di finanziamento per terroristi e warlord, con problemi enormi per la sicurezza e il ritorno paradossale della pirateria nei nostri mari.
Di sicuro deve essere chiaro che imbastire unicamente un’invasione militare non fermerà il diffondersi del fondamentalismo islamico. Gli ultimi 14 anni sono la dimostrazione più evidente del fallimento delle politiche militari occidentali, fra Stati falliti e l’instaurazione di un Califfato nei territori dell’ex paese occupato (Iraq). Senza una politica
culturale e economica di lungo periodo, anche le future guerre saranno un sanguinoso fallimento che rinfocoleranno la fiamma dell’estremismo religioso. Senza risolvere i problemi derivanti dalle politiche di potenza delle monarchie del Golfo, le
quali hanno finanziato per anni i più feroci gruppi terroristici; gli incontri culturali promossi da Obama&company rimarrebbero puro folclore e perdita di tempo.
L’Europa con la sua dissennata miopia si è infilata in un vicolo cieco che non può essere evitato. O sconfessa decenni di storia ritornando all’imperialismo coloniale (quindi buttando nella spazzatura la retorica dei diritti umani e riesumando la propaganda bellicista con cambiamenti epocali per la nostra società), oppure si rinchiude nei propri confini rinunciando a interferire nel Medio-Oriente e imbastendo politiche unicamente di difesa.
Purtroppo, ambedue le opzioni hanno dei costi terrificanti e soprattutto la seconda è impossibile da applicare in un mondo globalizzato, dove le nostre economie sono legate a quelle arabe. Inoltre, a giudicare dai proclami dell’Isis e soci, vale l’insegnamento di Troztkij: “Tu puoi non essere interessato alla guerra, ma la guerra è interessata a te”.

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