
Nella musica, nel cinema, nella letteratura, nell’arte… in ogni dove si sente parlare di “Musa ispiratrice”; al singolare o al plurale poco importa, quello che conta è che qualcuno abbia ispirato l’artista. Nella maggior parte dei componimenti o delle raccolte di componimenti, latini o greci che siano, sappiamo, già dai tempi delle scuole medie, che gli autori erano soliti invocare la Musa perché ispirasse i versi successivi e donasse a loro l’immortalità. Ma quale musa veniva invocata? Solitamente la musa Calliope, colei dalla bella voce riferimento della poesia epica, colei che poteva donare l’ispirazione e fare da tramite tra lo scrittore e gli dei. La Musa assume un ruolo fondamentale nell’opera del poeta perché, senza il suo aiuto, sembra che non si possa ottenere un granché. Serve un “portafortuna”, un rituale scaramantico che dia valore ai versi.
La più famosa invocazione alla Musa, quella che la maggior parte degli studenti è tenuta ad imparare a memoria, è quella che apre l’Iliade di Omero.
“Canta o Dea, l’ira del Pelide Achille,
rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei.
Gettò in preda all’Ade, molte vite gagliarde d’eroi,
ne fece bottino dei cani e di tutti gli uccelli.
Consiglio di Zeus si compiva,
da quando prima, si divisero contendendo
Atride signore d’eroi e Achille glorioso”
Queste poche righe non solo chiamano in causa una forza superiore che dia onore al poema, ma anticipano anche quello che sarà l’argomento della narrazione.
Anche in Virgilio e nella sua Eneide troviamo un’invocazione iniziale che, a differenza di quella del poeta greco, inverte l’ordine di esposizione: se Omero prima invoca la dea, poi anticipa la trama, Virgilio prima informa del tema poi chiede un aiuto divino.
Canto le armi e l’eroe, il quale per primo dalle coste di Troia
giunse in Italia, profugo per volere del fato, e alle spiagge
di Lavinio, egli che fu sballottato ampiamente per terra e per mare
e sopportò molto anche in guerra, pur di fondare la città,
e portare gli dei nel Lazio, da cui la stirpe latina,
e i padri albani, e le mura dell’alta Roma.
Musa, ricordami le cause, per quale volontà divina offesa,
o perché addolorata, la regina degli dei costrinse un eroe
illustre per devozione ad affrontare tante vicende e
a subire tante fatiche. Così profonda l’ira nell’animo dei celesti?
Ripensando a questi elementi ho deciso di spulciare un po’ di poesia moderna, per vedere che fine ha fatto l’invocazione alla Musa e come sia stata trattata questa divinità.
In particolare ho scelto due poeti dell’Ottocento Charles Baudelarie, mia grande fonte d’ispirazione e Arthur Rimbaud.
Arthur Rimbaud è stato un poeta della seconda metà dell’Ottocento che ha raggiunto l’apice del successo in brevissimo tempo: a vent’anni, già aveva abbandonato la penna per dedicarsi ad altri affari, persino al contrabbando dall’Abissinia. Fu il maestro ed estimatore Verlaine ad annoverarlo nell’Olimpo dei Poeti Maledetti. Il senso di instabilità che si genera nella sua vita, si riflette perfettamente nello straniamento che scaturisce dai suoi versi. Eppure, i suoi studi letterari lo avvicinano alla cultura greca e romana, al punto che, troviamo nella seconda lirica “La mia Bohème” tratta della raccolta “La stella piange”, una Musa tutta sua.
La mia bohème
Me ne andavo, con i pugni nelle tasche sfondate;
anche il mio paltò diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa! Ed ero il tuo fedele;
Perbacco! Quanti amori splendidi ho sognato!
I miei pantaloni avevano un vasto strappo.
-Puccettino sognante, nella corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era l’Orsa Maggiore.
-Nel cielo le mie stelle avevano un leggero
Fru-fru, l’ascoltavo seduto sul ciglio della vita,
le belle sere settembrine in cui la rugiada
m’imperlava la fronte come un vino di vigore;
in cui, poetando fra le ombre favolose,
tiravo come lire gli elastici alle scarpe
ferite, e avevo un piede accanto al cuore!
Nessuna invocazione per chiedere la grazia dell’immortalità. Nessuna anticipazione del tema. Nessuna supplica per ottenere l’ispirazione. La Musa qui prende un unico significato/valore: lei diventa parte integrante del contesto narrativo che lo scrittore sta creando. Il fatto che sia un poeta lo legittima a chiamare in causa una divinità, ma il suo obbiettivo è solo raccontarsi. I versi scaturiscono liberi e cadenzati “nella corsa sgranavo / Rime”, esattamente come si “sgrana” il rosario, a ripetizione. Il senso lirico è insito in Rimbaut al punto che “poeta tra le ombre favolose/ tirando come lire gli elastici alle scarpe”. Se, nell’antichità, era richiesto un certo atteggiamento, una certa predisposizione mentale per ottenere attenzione dalle divinità, con i poeti maledetti tutto questo si annulla. La poesia e l’ispirazione sono già lì, serve solo qualcuno che ascolti.
Come la vedeva Baudelarie? Lui che si trovò sempre al limite della sopravvivenza, sempre al verde, con i creditori alle calcagna e un insano amore per tutto ciò che era fuori dalle regole e dalla morale, affronta la poesia come si affronta un’amante passiva, a volte coccolandola, a volte aggredendola.
La musa malata
Povera Musa mia, cosa hai questa mattina?
Il tuo sguardo è pieno di visioni notturne
e vedo sulle tue guance riflettersi a turno
freddi e taciturni, l’orrore e la follia.
Il succubo verdastro ed il folletto rosa
t’hanno versato dalle loro coppe la paura e l’amore?
L’incubo con pugno dispotico e ribelle
ti ha soffocata in fondo al mitologico Minturno?
Vorrei che diffondendo odore di santità
il tuo seno fosse colmo di pensieri coraggiosi e
il tuo sangue cristiano sgorgasse a fiotti ritmici
come i suoni numerosi delle sillabe antiche
su cui regnano a turno Febo, padre delle canzoni,
e il grande dio Pan, signore delle messi.
A soli 20 anni di distanza (Baudelarie era più vecchio di Rimbaud) sembra di essere finiti in tutt’altro mondo. La musa di Rimbaud c’era, ma non c’era. Verrà nominata ma non sarà presente. Quella di Baudelarie, invece, c’è, è lì, fisicamente esistente nelle follie deliranti dettate dall’assenzio e dall’oppio, ma è malata. Soffre gli stessi sintomi dell’uomo che la invoca, è folle, sconvolta dagli incubi dettati dal “succubo verdastro”. Non è più la grande e inarrivabile musa elegiaca di Virgilio e Omero, la splendida Calliope dalla bella voce. Ormai è solo una “femmina” rovinata dall’evoluzione sociale e dal dilagante senso di angoscia misto a follia. Non è più il poeta ad immedesimarsi nella divinità per raggiungere le alte vette dell’immortalità. Ormai la Musa è mortale, in fin di vita, proprio come quei versi che il poeta rievoca come sangue cristiano, assolutamente in contrasto con il pagano desiderio di tornare alla gloria delle gare di canto tra Febo e Pan.
Sorge ora un dubbio. Quale sarà la musa del nuovo millennio? Una musa cibernetica? Fatta di microchip e codici standard che propone e ripropone le stesse combinazioni all’infinito, ispirando la creazione di qualcosa di già visto e revisionato? Oppure dovremo aggiungere una nuova musa alle nove già esistenti. La musa della cyber-cultura?

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