
L’inverno è sinonimo di letargo. E’ la stagione più lenta e pacificatrice. La neve che sommerge il paesaggio rendendolo silenzioso fa da contorno al quieto torpore dell’animo umano. Nel film di Nuri Bilge Ceylan non è così. L’inverno si fa portatore di scariche emotive forti, lotte interiori senza via d’uscita. Nessuna pace. Nessun conforto.

Regia: Nuri Bilge Ceylan
Sceneggiatura: Nuri Bilge Ceylan, Ebru Ceylan
Paese: Turchia (coproduzione Germania, Francia)
Genere: drammatico
Premi: Palma d’oro Festival di Cannes 2014
Interpreti:
Haluk Bilginer: Aydin
Melisa Sözen: Nihal
Demet Akbag: Necla
Ayberk Pekcan: Hidayet
Consigliato a: professori che insegnano storia del teatro al DAMS, attori mancati, persone con un’eccezionale concentrazione.
Sconsigliato a: Animalisti, mogli di ricconi insoddisfatte, professori ubriaconi


Vincitore dell’ultima Palma d’Oro al Festival Internazionale di Cannes “Il regno d’inverno – Winter sleep” rappresenta un viaggio di quattro ore dove il simbolismo la fa da padrone. Sono chiari i riferimenti a Shakespeare (l’hotel di Aydin si chiama “l’Othello”, nel suo studio c’è una locandina dello spettacolo teatrale “Antonio e Cleopatra”, il poeta viene citato testualmente in una “gara culturale”) e c’è una certa strizzata d’occhio alla letteratura Russa: la risoluzione di tutte le fragilità viene identificata nell’odierna Istanbul, un po’ a ricordare il valore che assumeva Mosca nelle opere di Cechov. In più possiamo equiparare il personaggio del motociclista a una certa cognizione di tempo limitato, di giovinezza ormai andata. Oppure viene naturale immaginare che il cavallo selvaggio, prima catturato e poi liberato da Aydin, rappresenti la libertà dai legami affettivi opprimenti.
Un film non scontato ma non per tutti, di una durata che definire immensa è poco. Le uniche crepe sulla coltre di ghiaccio plasmata dal regista si vengono a creare quando lo spettatore non assiste mai a una conclusione ponderata di un solo dramma. Tante storie, tanti teatranti, tutti in scena che si sfiorano con la loro bravura e il loro talento. Ma oltre a ciò? I lunghissimi dialoghi a cosa servono se non si ha una fine? Non si dovrebbero porre domande se non si hanno le risposte. Ma soprattutto quest’opera non regge il confronto con pellicole vincitrici dello stesso premio nelle annate precedenti (vedi le ultime tre palme d’oro “La vita di Adele” di Kechiche, “Amour” di Haneke e “The Tree of Life” di Malick). Ormai va di moda premiare ciò che non si comprende? Ciò che manca? Opere lunghe ma mozze? Chiediamocelo.

Ho visto il film, come mi aspettavo, come volevo, è rimasto inconcluso, silente all’interno, lavora ancora ora dentro, sotterraneo.
Come la scena in cui la camera “entra” da dietro nella testa del protagonista, questo è stato un film in cui, entrati dentro, si rimane ad osservare, a sentire, a ricordare le atmosfere, senza che sia necessario avere finali, conclusioni, senza il fiocchetto sul pacco.